FATTO A MANO presenta Giovanni Paolin: Costruire spazi indipendenti: curare, resistere e abitare Venezia - ep. 04
Cosa significa essere un curatore indipendente a Venezia oggi? Nel quarto episodio di Fatto a Mano, abbiamo avuto il piacere di chiacchierare con Giovanni Paolin, che ci apre le porte del suo percorso; dalla formazione tra Torino e la Svezia, al ritorno in Laguna. Direttore artistico dello spazio Panorama, Giovanni racconta il valore della relazione con gli artisti, l’importanza di costruire ecosistemi culturali radicati nei territori e il bisogno di prendersi il tempo per capire, situare, resistere. Una conversazione densa, che esplora il senso del fare curatela fuori dai circuiti dominanti, tra attivismo quotidiano e visioni collettive.




Giovanni Paolin:
Ciao, sono Giovanni Paolin e lavoro come curatore indipendente a Venezia. Seguo diversi progetti sia come curatore sia come producer. Mi piace molto lavorare a fianco degli artisti e la mia ricerca si focalizza nel situare le ricerche artistiche all’interno del territorio.
Elena Barison:
Iniziamo subito con la tua attività di curatore. Vorrei chiederti, visto che ti sei formato attraverso Campo della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, ma anche attraverso CuratorLab in Svezia.
Secondo il tuo punto di vista ed esperienza, oggi i giovani da dove potrebbero iniziare per diventare curatori? E quali sono per te le opportunità migliori per fare esperienza nel settore?
Giovanni Paolin:
Quando abbiamo parlato un po’ delle domande e della struttura dell’intervista ci ho pensato tanto e devo dire che non c’è una ricetta. Mi trovo spesso in difficoltà a parlare con amici o persone che si stanno affacciando a questo mondo perché il mio percorso è stato un po’ per tentativi, ma soprattutto credendo che la strada giusta sia quella di lavorare con gli artisti. Effettivamente spesso ci si concentra sulla teoria e sulla ricerca particolare di un curatore o di una curatrice, ma la cosa importante che ho sempre tenuto come riferimento è il lavoro con gli artisti. I due corsi e i due programmi a cui hai accennato mi hanno dato delle basi tecniche, però effettivamente mi hanno inserito in un contesto che mi ha permesso di fare delle esperienze personali e di crearmi una rete che adesso mi è molto utile.
Il mio suggerimento è parlare con gli artisti e con chi fa già questo lavoro. Una delle cose che mi prefiggo sempre è di aiutare, di cercare di coinvolgere il più possibile le persone che si vogliono affacciare o emergere in questo mondo perché è un mondo duro e bisogna aiutare.
Elena Barison:
In seguito a Torino e al tuo soggiorno in Svezia sei tornato a Venezia, perché Venezia alla fine è un po’ la tua casa. In che modo quindi il contesto di Venezia, con poi ovviamente tutte le sue specificità, influisce nel tuo modo di organizzare, concepire le esposizioni e gli eventi culturali.
Giovanni Paolin:
Qui gestisco e seguo la direzione artistica di uno spazio, Panorama. Venezia, essendo una città comunque abbastanza marginale – marginale solo perché si trova all’estremo est d’Italia, ma allo stesso tempo un’isola, un luogo dove arrivano delle influenze di progetti a livello mondiale e internazionale – è un bel posto, secondo me, da cui guardare una serie di dinamiche che effettivamente qui vengono ingrandite.
Io parlo sempre di Venezia come se fosse una sorta di lente di ingrandimento, funziona bene da questo punto di vista. Guardiamo anche a tutte le dinamiche che si stanno sviluppando nei centri città o nei piccoli centri cittadini, il turismo, e quelle legate al capitalismo, a Venezia si vedono tutte sotto una lente di ingrandimento. Penso anche al fatto di come sono arrivato qui stamattina: i vaporetti erano tutti pieni, ma allo stesso tempo nella mia zona non c’era molta gente, quindi si riesce a vedere come le persone preferiscono determinati percorsi e cose standard. In realtà, vedendo le cose, la città e l’ecosistema da altri punti di vista, riesci a scoprire molto altro.
Per me questa è una lezione importante. Da Venezia ho compreso tutto il lavoro di resistenza che la comunità sta facendo e tutto quello che stiamo cercando di fare noi come abitanti e persone che vogliono restare.
Elena Barison:
Qual è stata l’esperienza curatoriale che ha segnato di più il tuo modo di pensare a una mostra e che poi ha influito sul tuo approccio che ora adotti a Panorama, come magari anche all’esterno.
Giovanni Paolin:
Ti parlerei di due progetti nello specifico: uno che è più un’esperienza, che è cominciata mentre finivo Campo, durante il quale ho visto delle città in giro per l’Italia, degli ecosistemi diversi – mi piace usare questa parola – ma il punto vero è che nella mia testa c’era l’idea di ripartire da un qualcosa di molto piccolo perché avevo bisogno di rimanere in contatto con ciò che stavo facendo e di stare con gli artisti. Sono entrato a far parte di quella che al tempo era un’associazione culturale, mentre adesso è una galleria, Atipografia di Arzignano, vicino a Vicenza. Un luogo in mezzo alle colline, molto particolare. Ringrazierò sempre Elena Dal Molin, la sua fondatrice, perché mi ha dato l’opportunità di vivere e di stare a contatto con gli artisti in residenza, perché vivevo dentro lo spazio culturale. Ho vissuto un mese a contatto con gli artisti e dopo abbiamo fatto una mostra insieme.
Mi ha subito messo in stretto contatto con le persone con cui volevo lavorare e parlavamo di progetti, costruivamo nel tempo, anche lentamente, delle mostre. Un’ex tipografia, uno spazio molto caratterizzato di inizio ‘900 che ha ritrovato vita come spazio culturale. Il mio imprinting è stato come luogo dove si accoglie la comunità, dove fare delle presentazioni di libri. Poi è continuato anche grazie a Una Boccata d’Arte, un progetto che seguo ormai da cinque-sei anni, che è cominciato durante il Covid. Ogni anno curatori e artisti vengono posizionati e situati all’interno di comunità e di borghi sotto i 5.000 abitanti in luoghi se vuoi anche remoti, molto piccoli, dove le dinamiche dell’arte contemporanea non arrivano in maniera potente e schiacciante, quindi bisogna costruire anche un rapporto con la comunità e vedere cosa è importante e che cosa si può eliminare. Secondo me questo è un altro buon consiglio.
Elena Barison:
Arriviamo a Panorama, dove ci troviamo ora…
Giovanni Paolin:
Dove si vede anche l’interazione col fuori, che è un tema di questo luogo.
Elena Barison:
È nato nel settembre 2023 però poi siete usciti al pubblico ufficialmente a dicembre.
Giovanni Paolin:
A dicembre è cominciato il lavoro strettamente con gli artistə. L’invito arriva da un amico, Filippo Zammattio, che gestisce Ozio in Campo Santa Maria Formosa e che mi dice di essersi stancato che la sua famiglia venga chiamata da ATM o da negozi di maschere e di paccottiglia. Mi dice: “noi abbiamo questo piccolo spazio con cui si possono fare tante cose e vorrei portare dei contenuti culturali, lavorare con degli artisti, vorrei in qualche modo fare comunità in un luogo come San Marco”, che effettivamente si sta svuotando perchè ha determinate problematiche.
La nostra prima idea è stata quella di organizzare tre piccoli output espositivi di tre realtà indipendenti che volevamo seguire. Abbiamo cercato di lavorare con un collettivo di artisti che ci ha introdotto anche a una rete di spazi indipendenti che si sta consolidando, che è Comecome. Abbiamo presentato l’iniziativa legata a Ozio e a Filippo, in particolare, di un sidro fatto con gli ultimi meli di Sant’Erasmo e dopo abbiamo presentato l’associazione Batipai che sta restaurando La freccia azzurra e questa iniziativa si chiamava Bassi fondali perchè in qualche modo ci permetteva di vedere ciò che emerge se va via la marea. Quello è stato il primo nucleo espositivo all’interno di Panorama.
Dopo è arrivato il lavoro con Matteo Stocco, Metagoon, La parabola della montagna e tutto quello che vuol dire lavorare con artisti. Cerchiamo di farlo nella maniera più giusta e corretta possibile, cercando di coprire le produzioni, le Fee, presentando e comunicando il lavoro in una certa maniera. Anche per questo apprezzo quello che stiamo facendo adesso, perché in qualche modo si sposa bene con quello che vogliamo fare e con ciò che secondo me potrebbe salvare anche la scena indipendente veneziana, cioè il farsi capire.
Elena Barison:
Volevo chiederti il criterio che hai adottato in questo periodo e che adotterai in futuro magari per scegliere chi ospitare a Panorama.
Giovanni Paolin:
Facendo tanti progetti c’è da dire che faccio molti studio visit. Un altro consiglio per chi si vuole affacciare al mondo della curatela è di stare nelle strutture degli artisti, di conoscerli e parlare con loro. In qualche modo mi piace pensare che Panorama ospiti sempre progetti che emergono in maniera organica. Ovviamente io ho un archivio di progetti che vorrei presentare qui, ma di solito sono sempre ricerche che in qualche modo sono declinabili in un luogo come Venezia. L’idea di Panorama è che in qualche modo sia la città – città come contesto – a far emergere delle ricerche e a situarle. Pensiamo, per esempio, a ciò che abbiamo attorno: Luca Vanello ha una ricerca ben specifica che con Venezia si legava perfettamente. Lui in qualche modo raccoglie in dei giardini situazioni particolari, la sua ricerca è stato un modo anche di far pensare a un aspetto della città che non viene preso in considerazione. Dico città e so che è un termine che non comprende tutta la complessità dell’ecosistema lagunare, di tutto quello che abbiamo intorno però sono sempre termini con cui ci esprimiamo per comodità.

The Animal That Therefore I Am, Mattia Sinigaglia – A plus A Gallery, Venezia
“Il succo vero, secondo me, è che nessuno ha la ricetta, bisogna essere flessibili per reagire bene, essere fluidi e provare a spostare il tiro"
Elena Barison:
Ti sei presentato come curatore indipendente e infatti volevo chiederti come interpreti l’essere, appunto, indipendente nel contesto artistico contemporaneo e come dialoga soprattutto il tuo lavoro a Panorama con le collaborazioni però istituzionali, come con Autostrada Biennale
Giovanni Paolin:
Hai toccato proprio una questione:indipendente significa che non sono una figura istituzionale, effettivamente dal punto di vista curatoriale al momento non la ricopro.
Anche la parola indipendente secondo me apre a tanti scenari diversi: apre al fatto che io lavoro con una Partita IVA, sono un professionista che in qualche modo è imprenditore di se stesso – se vogliamo usare una definizione barbara – e io appunto alterno anche curatela e produzione perché mi permette di vivere. Mi piace molto lavorare con gli artisti, ma effettivamente l’essere indipendente comporta una serie di significati che poi devono mediare con il sistema, che è fatto di persone singole, di situazioni, di fondazioni.
Non voglio neanche che passi l’idea che bisogna essere “duri e puri”, che in qualche modo non non si debba mai avere a che fare con l’istituzione perché in qualche modo prende anche una visione quando tu ci hai a che fare. Penso, per esempio, alla Biennale con cui non ho mai collaborato direttamente, però mi capita spesso di lavorare con artisti che arrivano a Venezia e hanno bisogno di un aiuto perché non hanno idea di come si faccia la logistica in città e non hanno idea di come parlare a un’istituzione grande come la Biennale, che effettivamente è uno dei cuori pulsanti di questa città che la sta trasformando in bene o in male – non saremo noi a deciderlo durante questa intervista. Sono anche un po’ le istituzioni che dovrebbero, secondo me, prendersi carico di questa trasformazione, no?
Prima parlavo di ecosistema: gli ecosistemi sono fatti di varie nicchie che sono animate da protagonisti diversi, le istituzioni fanno questo per cui troverei assurdo non voler parlare con nessuno.
Effettivamente hai citato un’altra cosa che sto facendo, cioè lavorare come production coordinator di una Biennale all’estero, un ibrido tra la cura delle produzioni. Potremmo ragionare molto su cosa significa curatela, di quanto la produzione faccia parte del discorso curatoriale – secondo me quasi al 90% – però ci sono diversi punti di vista e l’importante secondo me è non essere troppo chiusi in sé stessi.
Elena Barison:
In che modo riesci a mettere in relazione i contesti e visto che appunto operi non solo qui a Venezia, ma anche in altre realtà, come li fai relazionare con la narrazione espositiva che realizzi? Quali strategie adotti per evitare di ridurre i luoghi a uno sfondo?
Giovanni Paolin:
Una domanda difficile, ma la risposta è semplice perchè non sono io che lo faccio. Sempre in maniera molto naturale questo avviene tramite il rapporto con gli artisti, è la relazione che diventa generativa in qualche modo e non c’è neanche un modo specifico. Quello che mi interessa è non essere didascalico, non creare un rapporto diretto tra ciò che voglio dire e ciò che espongo.
Si lega anche a quello che significa fare arte e una ricerca contemporanea. Si vedono spesso delle selezioni di film o delle opere che in qualche modo secondo me non funzionano perchè dicono esattamente quello che vogliono dire, il che è molto contemporaneo, ma dal punto di vista sbagliato, però ci aiuta a essere quasi furtivi.
A me piace molto quest’idea: per quanto mi piaccia essere aperto, capisco che comunque funzioni il non essere accessibili subito, spero si capisca questa differenza. È il motivo per cui non ho i social, se uno vuole parlare con me c’è la mia mail in internet. Mi sembra che il rivelare tutto subito sia un po’ anche un male contemporaneo, è un qualcosa con cui bisogna avere a che fare e parlare. Non si può basare tutto sull’immediatezza, questo è un buon modo per ragionare.
Elena Barison:
Se dovessi descrivere il tuo rapporto con Venezia attraverso un’opera d’arte?
Giovanni Paolin:
Sono un grandissimo fan dell’artista che c’era qui precedentemente – non che non sia fan di tutti gli artisti e le artiste con cui ho lavorato qui a Panorama – Aiko Shimotsuma, un’artista giapponese.
Il suo lavoro parlava di nebbia e di diverse concentrazioni di sale nell’acqua, di silenzio, ed esprimeva perfettamente Venezia secondo il senso del luogo non in maniera romantica, anche in maniera molto fredda. Secondo me esprimeva bene quello che è un equilibrio precario perché non dobbiamo dimenticarci che questa città è sull’orlo della distruzione. È bene che se ne parli e si tenga un rapporto di grande attaccamento, ma anche di grande distanza, perché se sei troppo vicino magari non riesci a vedere delle problematiche che ci sono. Questo descrive bene anche il mio rapporto con Venezia. La mia compagna lo sa bene, ne abbiamo parlato di cosa significa stare qui e di tutte le difficoltà che effettivamente affrontiamo ogni giorno.
In questa intervista abbiamo parlato di essere indipendenti, di come si lavora con gli artisti, ma effettivamente abbiamo prezzi più alti e grandi difficoltà a muoverci. C’è da dire che ci sono sempre tornato. Sono tornato qui subito prima del Covid e poi ci sono rimasto grazie a questo. Ho sempre visto Venezia come la base ideale e questo è anche, per il fatto che molte figure intellettuali e curatoriali si stanno spostando a Venezia, una città internazionale, con stimoli immensi, ben collegata e ha effettivamente tutte quelle caratteristiche che servono per una vita ideale. Non voglio dire che non mi sposterò mai, ma sicuramente farò di tutto per tornare ogni tanto.
Elena Barison:
Ritornando alla professione del curatore, con uno sguardo rivolto alle nuove generazioni che si vogliono affacciare a questa carriera, ti chiederei quali sono secondo te le competenze che consideri fondamentali per affrontare la complessità del sistema dell’arte contemporanea?
Giovanni Paolin:
Eh, ce n’è solo una, anzi due: la prima è la mediazione. Credo di fare il lavoro che faccio perché sono bravo a provare a mediare tra le varie cose, o almeno ci provo. Nonostante ci siano sempre stimoli enormi da entrambe le parti, sia in maniera molto positiva o negativa, cerco sempre di non farmi portare dalle emozioni. È importante, come dicevo prima, filtrare, rimanere un po’ distaccati.
La seconda è avere una grande pazienza, sono sempre due caratteristiche che ho e che ho coltivato anche con altre esperienze. L’altro amore della mia vita, il terzo, la pallacanestro è un modo di stare dentro un perimetro di più di venti metri e per quasi dieci metri si è insieme ad altre nove persone che fanno una cosa contemporaneamente, bisogna avere delle regole, pazienza e sapersi situare.
Il succo vero, secondo me, è che nessuno ha la ricetta, bisogna essere flessibili per reagire bene, essere fluidi e provare a spostare il tiro. Ho fatto Scienze motorie per il mio amore per il basket. Sei mesi dopo ho mollato. Ho fatto un anno e mezzo di scienze ambientali, ma ho mollato. Ho fatto Arti Visive e Teatro perché ho conosciuto al tempo una ragazza che mi ha instradato verso questo mondo. Bisogna accettare gli errori, non non c’è una strada, bisogna saper reagire e sapersi adattare. Ecco, adattamento è la terza cosa che vorrei dire.
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