FATTO A MANO presenta Beatrice Burati Anderson: due spazi complementari tra arte, scienza e spiritualità. - ep. 01
Nel primo episodio della seconda stagione di Fatto a Mano, facciamo visita alla galleria di Beatrice Burati Anderson, a Venezia, e da lì iniziamo a parlare di spazi, di cosa significhi aprire un luogo dedicato all’arte in una città che troppo spesso viene raccontata come semplice “contenitore”, e di come, invece, Venezia possa tornare a produrre cultura attraverso materia, lavoro e trasmissione di sapere.
Beatrice ci racconta la nascita dei suoi due spazi, distinti ma complementari e concepiti come un sistema unico: da una parte la galleria, dall’altra lo spazio eventi. Due luoghi che si guardano e si completano, costruendo un ritmo tra esposizione e incontro, tra visione e relazione, e definendo un modo personale di abitare e attivare la città. Un dialogo che tiene insieme rigore e intuizione, conoscenza e interiorità, e che restituisce alla pratica artistica il suo potenziale più profondo: essere un campo di ricerca capace di attraversare ciò che non è immediatamente misurabile, ma che ci riguarda da vicino.
Martina: Allora, siamo qui con Beatrice Burati Anderson, curatrice, storica dell’arte e gallerista veneziana.
Martina: “Venezia ha la possibilità di tornare a produrre arte e a non essere più solo un contenitore”. Che cosa intende con questa affermazione che ha fatto in una recente intervista?
Beatrice: Ho affermato che Venezia può ritornare a produrre arte e non essere semplicemente un contenitore. In un momento in cui la situazione era abbastanza drammatica, tutti gli spazi venivano affidati e affittati al miglior offerente e i veneziani se ne andavano: affittavano anche il divano della nonna. Non c’era più fiducia nella possibilità di continuare ad avere persone che desiderassero imparare la sapienza degli artigiani veneziani, che sono tra i più incredibili. Hanno specificità talmente importanti che sarebbe un’opportunità magnifica per tanti giovani poter imparare da loro e portare avanti una tradizione di eccellenza.
Negli ultimi anni vediamo che questo è di nuovo possibile. C’è stato il momento della grande crisi delle fornaci del vetro di Murano e credo che oggi possiamo dire che questa crisi non sia del tutto alle spalle di tutti, però c’è un grande entusiasmo, anche grazie a iniziative come Venice Glass Week, che da una decina d’anni spinge artisti che prima non ci avevano mai pensato a produrre con il vetro di Murano.
E non soltanto questo: ci sono associazioni ed enti che si dedicano alla promozione e alla cura delle attività artigianali. Vediamo che Venezia, sempre di più, si rende conto di questa propria unicità ed eccellenza.
Martina: Nel 2017 apre il suo primo spazio, la “Beatrice Burati Anderson Art Space & Gallery”, e in seguito anche un secondo, complementare, in Corte Petriana. Con quale intento nascono e come si sono inseriti da subito nel panorama artistico veneziano?
Beatrice: Nel 2017 ho aperto questa galleria […] e le ho dato un nome che, al momento, non capivo. Se qualcuno me lo chiedeva, rispondevo: “Non lo so, ho sentito che questo era il suo nome”. L’ho capito qualche anno dopo, quando nel 2021 ho aperto anche lo spazio di fronte: ho capito che quella era la “gallery” e che questo era “space”, e che in realtà erano nell’aria già da subito.
James Hillman diceva che quando un essere umano viene al mondo, dentro di sé è come se avesse una ghianda che già contiene l’albero che quell’essere umano sarà. Si tratta soltanto di coltivare, di cercare, di far sì che il terreno sia il migliore possibile, e poi di avere fiducia.
Io mi sono ritrovata ad avere due spazi complementari, uno di qua e uno di là, su un canale bellissimo di Venezia che sfocia sul Canal Grande, Rio della Madonnetta. Si guardano e in qualche modo fanno capire che si può coltivare qualcosa anche in maniera inusuale.
Martina: Essendo gallerista e curatrice, ritiene che esista un confine tra queste due professioni, oppure sono interconnesse? E come si relaziona con queste due parti che coesistono dentro di sé?
Beatrice: La galleria nasce proprio con l’intento di mettere in relazione arte e scienza. Non ho mai pensato di voler fare qualcosa di diverso da questo. Sicuramente l’influenza di mio padre è stata forte, sia in un senso che nell’altro: era un pioniere delle terapie naturali in Europa fin dagli anni 50′. Era erborista, farmacista, ricercatore e alchimista.
Dall’altra parte, tutte le domeniche mi prendeva per mano e mi portava a visitare i musei più belli di Venezia. Per cui non posso dire di aver mai sentito una cesura tra conoscenza e bellezza, tra arte e scienza: per me erano un’unica cosa, un unico mondo da esplorare, da conoscere, e in cui conoscersi e riconoscersi.
Sono immensamente grata a mio padre per questo. Purtroppo se n’è andato presto: se n’è andato il giorno del mio ventiduesimo compleanno. Però devo dire che, stranamente, sono arrivate altre persone che mi hanno fatto un po’ da padre successivamente, fornendomi conoscenze e possibilità di approfondimento.
Martina: La galleria promuove il forte legame tra l’arte e la scienza, derivato anche dall’influenza che la figura di suo padre, erborista e pioniere delle terapie naturali, le ha lasciato. Ad oggi, secondo lei, qual è il punto d’incontro fertile tra queste due discipline?
Beatrice: […] È una cosa complessa. L’arte, in questo momento, invece può essere il trait d’union, il luogo dove scienza e spiritualità si parlano, e dove noi possiamo conoscere noi stessi attraverso modalità che gli antichi conoscevano molto bene, ma che a un certo punto la conoscenza umana forse ha dimenticato un po’.
Assolutamente sì, la lettura della fisica, come quella di tanti testi dedicati all’approfondimento delle nuove frontiere della scienza, perché la scienza, per definizione, è sempre in movimento. C’è una frase di Einstein bellissima che amo immensamente, perché vale sia per gli scienziati che per gli artisti: diceva che non è possibile fare nessuna scoperta se non si pensa che tutto ciò che è stato scoperto fino a quel momento possa non essere vero.
Rimanere legati alla conoscenza, al noto, al già noto, all’assodato, al confine, al consolidato, al conosciuto è un limite grandissimo. Bisogna avere il coraggio di tuffarsi nello sconosciuto. Così come la scienza esplora nuove vie, l’arte deve fare lo stesso: può fare lo stesso.
“La galleria nasce proprio con l’intento di mettere in relazione arte e scienza. Non ho mai pensato di voler fare qualcosa di diverso da questo."
Martina: Quali sono i criteri essenziali attraverso cui sceglie di offrire una voce e uno spazio narrante agli artisti? Si basa sul suo sentire più intimo e profondo oppure su una serie di caratteristiche che essi possiedono?
Beatrice: Ecco come scelgo gli artisti. È un tema molto interessante. Mi ricordo che quando decisi di aprire la galleria andai, tutta contenta, da un gallerista che ammiravo e stimavo moltissimo, per cercare in qualche modo il suo benestare. Lui mi disse: “Attenzione, ragazza”.
“Pensa bene agli artisti che vuoi scegliere, perché verranno tutti da te: hai uno spazio pazzesco. Vorremmo tutti esporre a Venezia, poi figuriamoci”. Tornai a casa e cominciai a pensarci seriamente. E mi fu subito chiaro che c’erano tre criteri, non li ho mai visti dichiarati così da nessuno; sono cose molto precise.
Il primo è la necessità: quell’artista deve “morire” pur di fare la propria arte. Non deve essere qualcuno che fa arte come hobby, né qualcuno che può fare altro nel frattempo: deve dedicarsi completamente a quello che fa.
Il secondo è la capacità. Per me è molto importante che un artista diversamente da quello che è successo negli ultimi anni, sappia anche mettere mano alla materia. Se dipinge deve saper dipingere, se scolpisce deve saper scolpire. Deve avere il coraggio di mettere le mani sulla materia, di toccarla, e di saperlo fare.
E poi la terza è l’etica. Non necessita di spiegazioni.
Martina: Ci può raccontare che cosa rappresentano per lei gli spazi che possiede qui a Venezia e come dialogano tra loro? La presenza dell’acqua, della sabbia, il legno delle travi, il pavimento in cotto e le pareti in mattoni a vista suggeriscono uno stretto legame con Venezia, con la natura e l’etica.
Beatrice: Io credo che questi spazi dialogano proprio perché sono complementari: uno è “gallery” e l’altro è “event”. Si guardano, sono su un canale bellissimo che sfocia sul Canal Grande, e fanno capire che si può coltivare qualcosa anche in maniera inusuale. […]
Martina: Quali ricordi ha costruito sin da bambina con la città di Venezia e i suoi spazi? E cosa si porta ancora con sé di questo profondo legame?
Beatrice: Oh, che domanda. Io sono nata di fronte alla Ca’ d’Oro e sono cresciuta in Campo San Polo, in una Venezia degli anni ’60, dove i bambini giocavano in campo, disegnavano con i gessetti, cantavano. Potevamo camminare da soli e soprattutto c’erano tante altre bambine.
Ho visto negli anni la città cambiare tantissimo. Però io porto con me i suoni e le voci. Porto con me l’ascolto, perché non c’è una città dove, se ascolti, non c’è cesura, non c’è limite tra la vita della strada e la vita nelle case. Cammini di sera, senti le persone a cena, pensi alle persone che litigano, alle persone che si amano, alle persone che giocano, che ridono… C’è un diaframma sottilissimo tra la vita dentro e la vita fuori.
E questa è una cosa che non si trova altrove. Un’altra cosa sono gli odori, c’è un odore molto particolare della città dopo che è piovuto, dopo l’acqua alta, prima della l’acqua alta, durante i temporali.
D’estate, d’autunno, d’inverno, in primavera si capisce che questa città è piena di giardini nascosti: senti i profumi. Non vedi i fiori, ma sai che ci sono dietro quel muro, e sogni.
E in tutto questo voglio tornare al mio amico carissimo Hugo Pratt, che alla fine di una delle sue storie più belle, Favola di Venezia, ci fa vedere Corto Maltese a Venezia di notte e dice che comunque, alla fine della storia, uno a Venezia se ne può sempre andare in qualche luogo sconosciuto.
È una città dove la realtà, il sogno, l’immaginazione, e il passato, il presente, il futuro sono contemporaneamente presenti. È un’opportunità per la nostra anima. E io credo che non sia un caso né nascere a Venezia, né decidere di venirci a vivere.
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