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Roger Ballen porta la fotografia cruda e sensoriale al Ex-Mattatoio di Roma.

Roger Ballen al Mattatoio di Roma: una mostra che costringe a guardare ciò che normalmente si evita.

Lo scorso weekend ci siamo concessi una gita fuori Venezia. Passando per le vie della capitale, siamo venuti a conoscenza che, oltre alla carbonara, ai carciofi in padella e al nuovo pontefice, a Roma c’è una mostra fotografica che inquieta e affascina in egual misura. Si chiama Animalism dell’artista americano Roger Ballen, ed è ospitata dentro le viscere di uno dei luoghi più suggestivi della città! Perché quell’uomo è legato? Perché quell’animale è in quella stanza? Perché quei disegni sembrano fatti da un bambino? Le risposte non sono importanti quanto il processo stesso del domandare. Un’esperienza visiva, sonora e grottesca che ci ha lasciati coinvolti e profondamente toccati. Oggi ve la raccontiamo con uno sguardo personale e immersivo, come piace a noi!

Animalism comincia prima delle immagini

A pochi passi da piazza Testaccio, tra le pareti di un’ex struttura industriale carica di memoria, Roger Ballen allestisce un viaggio perturbante. Il passato del luogo, un vero mattatoio, con i ganci ancora appesi, i binari al soffitto e le pareti scrostate, dialoga visceralmente con la poetica delle sue immagini. Non è solo il contenuto della mostra a essere crudo, ma il modo in cui si innesta nello spazio.

Animalism è il risultato di decenni di ricerca visiva, simbolica e soprattutto emotiva. Un’operazione site-specific, pensata per restituire l’ossessione balleniana per ciò che resta ai margini.

Roger Ballen non è mai stato un autore facilmente inquadrabile.

Nato a New York nel 1950 e trasferitosi negli anni Settanta in Sudafrica, dove ha scelto di vivere e lavorare stabilmente, Ballen si muove da sempre in una terra di mezzo tra generi e definizioni. Le sue immagini, rigorosamente in bianco e nero, sembrano provenire da una zona liminale: quella del sogno, dell’inconscio, della memoria collettiva.

La fotografia di Ballen è costruita con una cura meticolosa. Le luci, mai naturalistiche, sembrano scolpire i soggetti come in un set teatrale. I contrasti netti, i dettagli che emergono dal buio, i tagli di inquadratura, tutto contribuisce a creare un senso di sospensione, come se il tempo si fosse fermato un attimo prima o dopo un evento cruciale. Ogni scatto è una narrazione congelata, una scena carica di potenziale significato, ma mai completamente decifrabile. Non c’è un’unica chiave per entrare nell’universo di Ballen: ogni spettatore vi entra con il proprio vissuto, le proprie paure, i propri desideri.

Per Ballen, l’arte è uno strumento di esplorazione interiore. In più occasioni ha dichiarato che i suoi lavori sono frutto di una necessità espressiva quasi psicanalitica. Fotografare, per lui, è un modo per interrogare se stesso, per mettere ordine nel caos interiore. E forse è per questo che il suo linguaggio, per quanto personale e surreale, riesce a toccare corde così profonde anche in chi guarda. Perché parla di qualcosa che ci appartiene tutti: la fragilità, la paura, l’istinto, la solitudine.

Si guardano le immagini, ma sembra di toccarle; si ascoltano i suoni, ma sembrano provenire dalle fotografie.

Appena si entra nel Padiglione 9A del Mattatoio, si ha la sensazione che qualcosa cambi ritmo, come se il corpo cominciasse ad ascoltare prima ancora di vedere.

Le prime sale sono dominate da fotografie stampate. Le opere sono disposte con un ritmo che alterna momenti di vuoto e intensità, come se la visione avesse bisogno di pause per poter essere assimilata. Le fotografie, tutte in bianco e nero, sono dense come affreschi moderni: figure umane e animali condividono lo spazio in pose ambigue, tra costrizione e tenerezza, tra gioco e tortura.

Gli sguardi sono quasi sempre assenti. Non ci cercano, non ci invitano, e forse proprio per questo ci obbligano a guardarli più a lungo. Uomini sdraiati accanto a topi, volti coperti da maschere improvvisate, corpi nudi rannicchiati accanto a una pecora. Non c’è nulla di compiacente, nulla di spettacolare.

A colpire non è solo la potenza delle immagini, ma il modo in cui sono presentate. Il percorso si fa man mano più oscuro, non solo metaforicamente. Dopo la prima sezione espositiva, si entra in una zona completamente buia, dove la luce non proviene da faretti ma direttamente dalle immagini. Le fotografie vengono proiettate su grandi pannelli, sospese nel buio come visioni, accompagnate da una installazione sonora curata da Cobi van Tonder, un sottofondo che è più sensazione che melodia: suoni profondi, raschianti, a tratti simili a versi animaleschi, rumori metallici, lamenti lontani.

La musica, in particolare, gioca un ruolo fondamentale. Non fa da semplice sfondo, ma modula la percezione. In certi momenti, si attenua fino a scomparire, lasciando spazio a un silenzio che pesa quanto un suono. Lo spettatore si trova così sospeso in una dimensione quasi extracorporea, dove i sensi si sovrappongono.

A rendere l’esperienza ancora più straniante è il fatto che nulla è spiegato. Non ci sono didascalie, nessuna narrazione lineare, nessun titolo ad accompagnare le opere. Tutto è affidato al confronto diretto tra spettatore e immagine. L’invito di Ballen è chiaro: lasciarsi andare. Non cercare significati razionali, non cercare una morale, ma immergersi. Ascoltare l’inquietudine e la fascinazione.

“Nothing is staged. And nothing is already there. Everything is transformed through the camera.”

Non si entra al Mattatoio di Roma come si entra in una galleria qualunque.

C’è una differenza di temperatura, di densità dell’aria. È come se il suolo fosse più pesante, intriso di memoria. Lo percepisci nei passi, nelle superfici ruvide, nei muri segnati dal tempo, dalle macchine, dagli animali. È un luogo che parla ancora prima di essere osservato. E nel contesto di Animalism, questa voce si fa risonanza: lo spazio diventa opera, amplificatore, organismo vivo che restituisce alla mostra una fisicità radicale.

Il Padiglione 9A, in particolare, conserva le sue tracce originarie. Lo scheletro industriale è visibile ovunque: travi metalliche, ganci appesi, binari che correvano lungo le navate. Sono segni concreti di una memoria violenta, fatta di carne, di lavoro, di morte. In questo senso, il Mattatoio non è solo contenitore: è parte del contenuto. Non ospita la mostra, la abita.

Ballen, con la sua sensibilità per l’inconscio, non poteva che risuonare con un luogo così. Il suo immaginario disturbante sembra attivare ciò che già esiste in queste pareti. Le fotografie non raccontano il Mattatoio: lo risvegliano. Ne attualizzano l’ombra. Il risultato è un cortocircuito emotivo, quasi fisico, tra l’opera e l’ambiente.

Camminando per le sale, lo sguardo è naturalmente attratto verso l’alto. I ganci sospesi, i meccanismi arrugginiti, le impalcature sono come ferite ancora aperte. Testimoniano ciò che è stato: un luogo di separazione, tra vita e morte, tra animale e alimento, tra lavoro umano e corpo bestiale. Proprio in questa soglia Ballen sembra voler scavare.

Fondamentale la scelta curatoriale di non occultare nulla, ma di restituire tutta la crudezza dello spazio. La mostra non è stata “allestita” nel senso consueto: è accaduta. Le immagini dialogano con l’architettura, si proiettano su mattoni grezzi, su muri che trattengono ombre. Anche il suono ambient, cupo e dissonante, sembra emergere dalle viscere stesse del luogo: una voce interna che accompagna ogni passo.

Vedere Ballen in un museo neutro non avrebbe lo stesso impatto. Qui ogni scatto si rifrange su pareti che hanno conosciuto la carne. Ogni suono risuona in un’eco che non è solo acustica, ma storica. Ogni passaggio tra una sala e l’altra è una soglia simbolica, quasi liturgica.

Anche la posizione del Mattatoio ha un suo valore. Siamo a Testaccio, non in un quartiere turistico, ma in una zona popolare, identitaria, attraversata da trasformazioni ma ancora ancorata alla sua memoria operaia. Un quartiere che conosce la fatica, la materia. E Animalism, in questo contesto, non è un gesto concettuale, ma un’immersione nel concreto.

In un’epoca in cui molte mostre appaiono patinate, digitali, spesso asettiche, Animalism è una scommessa riuscita: riporta il corpo, il luogo e la tensione sensoriale al centro dell’esperienza artistica. Il Mattatoio non è solo sfondo: è co-protagonista. Artista e spazio si intrecciano in una narrazione condivisa, fatta di scontri e sussurri, dove il passato non è relegato a memoria, ma si riattiva in dialogo con l’oggi.

Le opere che ci obbligano a percepire quello che vogliamo evitare.

Nel contesto della mostra Animalism, questa poetica si radicalizza. Il tema dell’animale non è un’ossessione estetica, ma una chiave di lettura del presente. In un’epoca in cui il rapporto tra uomo e natura è sempre più compromesso, Ballen ci ricorda che non possiamo ignorare l’animale dentro di noi. Non possiamo fingere che l’istinto, la violenza, la tenerezza animale non ci riguardino. E lo fa attraverso immagini che non giudicano, ma mostrano. Con una brutalità che è anche delicatezza, con una cura formale che rende il disagio quasi sublime.

Ballen, dunque, è un artista necessario. Perché ci obbliga a vedere ciò che vorremmo evitare. E lo fa con una coerenza e una forza espressiva che raramente si incontrano nella fotografia contemporanea. Le sue opere non sono belle nel senso classico del termine. Sono vere. E nella loro verità, inquieta e poetica, sta tutta la loro potenza.

Lo spazio stesso diventa fotografia

Uscendo dal Mattatoio, la luce del giorno sembra sbagliata. C’è uno scarto, quasi fisico, tra l’oscurità interiore che ti sei portato dentro e il mondo che ricomincia a muoversi con la sua ordinarietà. Le persone camminano, i tram passano, i bambini giocano nel parco di fronte. Ma tu hai negli occhi ancora quegli sguardi vuoti, quei corpi ambigui.

In un’epoca in cui l’immagine è dappertutto e ha perso, spesso, la sua capacità di ferire, Ballen riesce ancora a spostare qualcosa dentro di te. Le sue fotografie non sono belle, sono necessarie. Non raccontano storie: creano spazi. Spazi interiori, psicologici, in cui sei costretto a stare, anche controvoglia. E forse è questo il dono più raro e radicale dell’arte: non dare risposte, ma obbligarti a non smettere di domandare.

Il fatto che tutto questo avvenga in un ex mattatoio non è solo un dettaglio scenografico. È un atto di coerenza. L’arte, per Ballen, non può esistere senza radicarsi nella realtà, nella storia, nella carne. E il Mattatoio, con la sua presenza cruda e concreta, amplifica ogni passaggio, ogni tensione, ogni silenzio. È come se lo spazio stesso diventasse una fotografia, scattata non con la macchina ma con l’intuizione.

Se passate per Roma, Animalism di Roger Ballen è una tappa obbligata, aperta fino al 27 luglio, il Padiglione 9A del Mattatoio a Piazza Orazio Giustiniani 4. L’ingresso è gratuito, gli orari vanno dal martedì alla domenica, dalle 11:00 alle 20:00.

La mostra è curata da Alessandro Dandini de Sylva in collaborazione con Marguerite Rossouw e accompagnata da un’installazione sonora firmata Cobi van Tonder

Maggiori dettagli su mattatoioroma.it

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