FATTO A MANO presenta Luigia Lonardelli: la curatela come processo di ricerca e scoperta - ep. 02
Fare il curatore significa creare le condizioni perché alcune cose accadano. Con questa riflessione, Luigia Lonardelli, curatrice e storica dell’arte, ci introduce alla sua visione della curatela come un atto di costruzione, dialogo e responsabilità.
In questo secondo episodio di Fatto a Mano, la incontriamo nella Sala delle Colonne di Palazzo Ca’ Giustinian, immersi nell’opera di Gulnur Mukazhanova per la mostra “Memory of Hope", parte del progetto “È il vento che fa il cielo" dell'Archivio Storico della Biennale di Venezia. Un viaggio che intreccia arte, memoria e contemporaneità, sulle orme di Marco Polo. Dalla sua esperienza al MAXXI di Roma alla Biennale, Lonardelli racconta il ruolo del curatore tra il sostegno agli artisti emergenti e la valorizzazione dei grandi maestri, la relazione con il pubblico e il modo in cui ogni esposizione si costruisce in base al contesto e alle sue infinite possibilità.
Esistono regole fisse nella curatela od ogni progetto segue il proprio percorso? In questa intervista, scopriamo come la pratica curatoriale sia un flusso continuo, dove il passato e il presente si intrecciano e ogni scelta diventa un atto trasformativo.




Luigia: Sono Luigia Lonardelli e sono una curatrice. Amo definirmi anche storica dell’arte e nella mia pratica curatoriale cerco sempre di mantenere entrambi gli sguardi.
Il mio lavoro si chiama fare il curatore: è una parola molto bella, che in italiano riverbera sul tema della cura, come cura della persona e delle cose. In qualche modo è quello che cerco di portare dentro la mia pratica curatoriale, lavorando per le istituzioni, con gli artisti e nella creazione delle opere. Come curatori, quello che facciamo – volendo sintetizzare molto – è creare le condizioni perché alcune cose accadano.
Elena: Vorrei ripercorrere con te alcune tappe della tua carriera, come quella che è stata al MAXXI di Roma. Come hai bilanciato la promozione di artisti emergenti con la valorizzazione di figure consolidate nell’arte contemporanea, ad esempio Merz e Boetti, con cui hai lavorato?
Luigia: Ho sempre lavorato con le istituzioni e per le istituzioni, come curatore istituzionale. Uno dei miei referenti non è soltanto l’istituzione, gli artisti, le opere, ma il pubblico. Rispetto al lavoro curatoriale freelance è una grande differenza. Devo rispondere chiaramente all’istituzione anche nella sua missione pubblica, verso i visitatori che attraversano gli spazi che costruisco insieme agli artisti. In questo lavoro è sempre meglio parlare di pubblici al plurale.
Il bilanciamento tra artisti emergenti e artisti consolidati è fatto soprattutto in ragione di quello che può arrivare ai pubblici attraverso l’azione espositiva. Da una parte, si fanno le proposte, qualcosa che spinge un po’ più in là rispetto al desiderio stesso dei visitatori, dall’altra parte, è giusto anche sostenerli nel loro desiderio, di guardare a qualcosa di passato. Le due cose sono in totale continuità, malgrado siamo abituati a dividerle sulla base di una formazione sui manuali di storia dell’arte.
Nella pratica espositiva non esistono i capitoli o pagine: tutto è in continuità, in un grandissimo flusso. Le due cose vanno una dentro l’altra. Basti pensare come gli artisti più giovani siano totalmente debitori o si ispirino ai maestri.
Elena: Sempre parlando di dialoghi, ma anche di collaborazioni, vorrei chiederti in che modo la collaborazione con artisti internazionali ha influenzato il tuo approccio curatoriale. Rilevi delle differenze tra i linguaggi artistici contemporanei internazionali e italiani?
Luigia: Lavorare con gli artisti mette profondamente in discussione le proprie identità. È un lavoro che necessita di alcune pratiche di decostruzione interiore, proprio perché racconta agli altri di noi e degli artisti. Sebbene io non sia della scuola che cerca di portare l’autorialità all’interno della pratica curatoriale, perché mi piace più far emergere l’artista, è innegabile che il nostro background si radichi sulla pratica della scrittura espositiva che, in quanto tale, ha una componente personale molto forte.
Il motivo per cui in tutti questi anni ho continuato a lavorare con l’arte e gli artisti forse è molto banale: si cerca di trovare nelle opere qualcosa per comprendersi. Dal punto di vista delle differenze tra artisti sulla scena internazionale e artisti italiani, devo dire che nel mondo di oggi non trovo una grandissima differenza. Le diversità variano nel corso del tempo e sono generate dai sistemi di produzione e di mercato. Non mi piace pensare a differenze nell’operazione artistica in sé, quanto piuttosto a divergenze nella ricaduta e nella fenomenologia di questo mondo, vedo piuttosto diversità individuali.
Certamente poi ci sono delle linee di pensiero, anche non rivelate a se stessi, delle preferenze effettive. Devo dire che questo non è un discorso astratto, perché non dobbiamo dimenticarci che non esiste una teoria curatoriale, ma una prassi curatoriale. Per cui, la prassi porta con sé inevitabilmente una dipendenza dalle condizioni esistenti in cui si attua il progetto espositivo e quindi, in primis, la sede in cui si lavora, il tipo di racconto che si vuole fare, il pubblico o l’immagine che si può avere e, certamente, anche che tipo di artista pensi in quel momento di dover promuovere. Chiaramente il nostro lavoro ha anche questo aspetto, che non si deve dare in astratto: alcuni artisti che sono giusti per un progetto, nello stesso momento, non lo sono per altri; o bisogna aspettare che crescano un po’ di più; oppure non sono adatti a quello spazio espositivo perché il loro linguaggio è differente. È molto difficile dire quali siano i criteri, perché quelle che usiamo sono griglie molto larghe.

Gulnur Mukazhanova “Memory of Hope” a cura di Luigia Lonardelli, presso la Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian a Venezia.
“Lavorare con gli artisti mette profondamente in discussione le proprie identità, perché è un lavoro che racconta agli altri, ma racconta anche di noi."
Elena: Arrivando alla mostra Memory of Hope a Palazzo Ca’ Giustinian. Cosa ti ha portato a scegliere Gulnur Mukazhanova in relazione ai 700 anni dalla morte di Marco Polo.
Luigia: Gulnur Mukazhanova è una delle artiste dell’area Centro Asia, tra le più interessanti in questo momento. Lei è originaria del Kazakhstan, ma in realtà l’area del Centro Asia agisce come un’unica identità linguistica e culturale. In questo momento, è un’area particolarmente fertile per quello che definiamo arti visive. È molto difficile dire cosa stiamo vedendo attorno a noi, cosa sia questo lavoro.
La mia prima idea è stata quella di lavorare su artisti che erano nati, vissuti in un territorio che era stato attraversato dai Polo e che è una zona immensa. Si parla poco del viaggio dei Polo in Kazakhstan, che in particolare è stato attraversato dallo zio e dal padre di Marco Polo. Anche dal punto di vista del viaggio è una storia estremamente interessante, essendo un territorio di confine che unisce i due cosiddetti continenti, Europa e Asia. Sappiamo che questo confine è molto labile a livello geografico e quindi Gulnur Mukazhanova racconta, attraverso il suo lavoro, come si mescolano le cose. Intorno a voi avete dei materiali che provengono da contesti di produzioni differenti: dall’ex Unione Sovietica, dalla Cina, dal mercato del centro Asia, e tutti insieme concorrono a formare un’immagine che non sappiamo bene da dove provenga, tipica dei territori di passaggio.
Elena: Anche nei lavori precedenti a questo, hai avuto modo di confrontarti in più occasioni con gli archivi. In che modo con questo lavoro si è inserito il lavoro dell’ASAC della Biennale?
Luigia: Hai citato una mia passione, che in effetti sono gli archivi. Ho lavorato molto spesso sugli archivi e questo sicuramente ha concorso molto a formare il tipo di criterio con cui organizzo il reale. Tutti noi lo organizziamo a seconda di criteri e di categorie della nostra mente. Chi fa questo lavoro deve essere consapevole di queste categorie inconsce che abbiamo. Certamente i fenomeni tipici dell’archivio e della febbre d’archivio: da una parte, l’accumulazione e, dall’altra, l’ordine, diventano storia e racconto comune di quanto è accaduto. Li riporto all’interno della pratica curatoriale. In questo caso, la Biennale di Venezia ha posto il progetto È il vento che fa il cielo, titolo che fa da cappello a tutto questo viaggio che faremo attraverso le tappe di Marco Polo – iniziato in Cina, poi a Venezia e poi a Istanbul – per dargli il senso della ricerca sul percorso di Marco Polo, ma anche su come possiamo trovare delle altre modalità espositive e di presentazione al pubblico. L’archivio storico di arte contemporanea rimane il cuore della Biennale perché ne conserva tutta la storia.
Elena: Infine, vorrei chiederti se puoi parlarci di un progetto espositivo che sogni di realizzare, ma che fino ad oggi non si è ancora concretizzato.
Luigia: Questo è molto difficile da dire. Proprio perché cerco di eliminare il più possibile quelle che sono le mie ambizioni, per tenere le mani tese verso gli artisti che incontro, le cose che vedo, le occasioni che mi dà anche il luogo espositivo in cui sono. Immagino sempre di fare una cosa diversa, che ancora non conosco, ed è proprio questo il mio sogno, continuare a fare qualcosa che ancora non posso immaginare.
Elena: Sicuramente è un augurio bellissimo da farsi. Un continuo andare avanti, alla scoperta, un po’ come Marco Polo. Grazie mille Luigia.
Luigia: Grazie a te Elena.
Porta la tua voce su The Journal
Hai un articolo da proporre alla nostra community o una mostra da segnalarci?